Kunsthistorisches Institut in Florenz – Max-Planck-Institut, October 16 - 17, 2014

Progetto e distopia | Architecture and Dystopia +  Giornata di studi | Workshop
organizzata da | organized by Dario Donetti & Alessandro Nova

The 1973 publication of 'Progetto e Utopia' marked the synthesis of Manfredo Tafuri's reflections, already underway by the late 1960s, on the ideological experience of modern architecture. Beginning with the unsettling architectural visions of Piranesi, Tafuri traces the contradictory attempts of avant-gardes to spatially and productively order industrial society. He subjects these utopian projects to rigorous dissection in order to reveal the ultimate exhaustion of their ideological ambitions and to come to terms with architecture's new condition of crisis. Architecture has been "obliged to return to pure architecture, to form without utopia; in best cases, to sublime uselessness."

Only a few years earlier, radical Italian, Viennese, English and Japanese artists had expressed a similar sentiment about the contemporary cultural condition. Calling into question the foundations of the modernist utopia, they transmuted the crisis of capitalism into a repertory of startling images that revealed the disturbing realities of the new consumer society. These artistic experiments would soon inspire a generation of architects who sought to employ the dystopian model as both a visionary and a constructive method of design. This design method would be able not only to operate on the protean architecture of late capitalism, but also to generate unexpected possibilities for urban planning or architectural expression. Among its consequences were the neo-Enlightement taxonomies of Aldo Rossi's 'L'architettura della città' (1966); the pop-empiricism of Denise Scott Brown, Robert Venturi and Steven Izenour's 'Learning from Las Vegas' (1977); and the relativistic, process-based architectural theory of Rem Koolhaas's 'Delirious New York' (1978), 'S, M, L, XL' (1995) and 'Junkspace' (2000).

Also due to these methodological explorations, the "heterotopias" (FOUCAULT 1967) of the industrial metropolis have quickly evolved in the last decades of the twentieth century into an unrelenting dystopian architecture. Up until the most recent global economic crisis, it took form in great urban agglomerates and in new centers of power.

But is it truly possible to define a unified "dystopian" method of design? Or does this architecture, by its nature, resist systematization? Are the most recognizable architectural expressions of this theoretical framework—characterized by brazen displays of technology and structures of overwhelming scale—merely isolated cases, albeit of particular iconic power? Or do they belong to a wider landscape of antirational architectural projects? And to what extent are these disturbing expressions premised on the utopian tradition or, better yet, the conceptual model of "negative thought"? The goal of this symposium will be to respond to such questions, and to initiate an open dialogue about the legitimacy of this critical category.

Nel 1973 Manfredo Tafuri conclude, con 'Progetto e utopia', una riflessione sull'esperienza ideologica dell'architettura moderna da lui avviata alla fine degli anni sessanta. Percorrendo i diversi tentativi di ordinamento della società produttiva perseguiti dalle avanguardie - sotto la luce inquieta delle visioni piranesiane che ne aprono la parabola - il metodo utopico è sottoposto a una lucida dissezione, sino a rivelare il definitivo esaurirsi di ogni spinta propulsiva dell'ideologia e riconoscere, così, la nuova condizione di impotenza dell'architettura della crisi: "obbligata a tornare pura architettura, istanza di forma priva di utopia, nei casi migliori, sublime inutilità".

Con un simile sentimento del contemporaneo, pochi anni prima, i gruppi radicali italiani, viennesi, inglesi e giapponesi avevano esasperato i postulati dell'utopia modernista, introiettando la crisi del sistema capitalista in un repertorio di immagini allucinate, per mostrare i risvolti inquietanti della società della produzione e del consumo. In breve tempo questi stimoli sarebbero stati assimilati da una generazione di architetti che avrebbe fatto della distopia un metodo di progetto visionario e fattivo insieme, capace di applicarsi al proteismo dell'architettura produttivista, ma anche di generare possibilità inedite per la programmazione urbana o la riflessione sul linguaggio: il neo-illuminismo classificatorio de 'L'architettura della città' (1966) di Aldo Rossi; l'empirismo pop di Robert Venturi, Denise Scott Brown e Steven Izenour in 'Learning from Las Vegas' (1977); la teoria relativista dell'architettura come processo di Rem Koolhaas, da 'Delirious New York' (1978) ad 'S, M, L, XL' (1995) e 'Junkspace' (2000).

Anche grazie a queste esplorazioni metodologiche, l'involontaria eterotopia di "spazi altri" (FOUCAULT 1967) delle metropoli industriali si è evoluta rapidamente nell'inarrestabile architettura distopica dell'ultimo quarto di secolo del Novecento che, fino alla più recente crisi delle economie occidentali, ha rimodellato il paesaggio dei grandi agglomerati urbani come dei nuovi centri del potere.

Ma è davvero possibile riconoscere dei caratteri comuni a un metodo di progetto che si possa definire distopico? O tale architettura è, per sua stessa natura, irriducibile a sistema? Anche i prodotti meglio riconoscibili di quelle spinte teoriche - declinate nell'esibizione muscolare della tecnologia e in sorprendenti fuori scala - rappresentano solo exploit isolati, di particolare efficacia iconica, o appartengono invece a un più vasto paesaggio di progetti antirazionali? E fino a che punto è lecito riconoscerne le premesse nelle espressioni più inquiete della tradizione utopica occidentale o, da ultimo, nel modello concettuale del pensiero negativo? Il tentativo di questa giornata di studi sarà quello di rispondere a simili interrogativi e costruire un dialogo aperto tra i suoi partecipanti sulla legittimità, o meno, di tale categoria critica.

giovedì | thursday 16

14.30 

  • Alessandro Nova - saluti | welcome
  • Dario Donetti - introduzione | introduction
  • FINE DEL MODERNO | END OF MODERNISM - presiede | chair Dario Donetti

15.00 

  • Marco De Michelis (IUAV, Venezia) - Tafuri e la morte dell'architettura

15.45 

  • Oliver Elser (DAM, Frankfurt am Main) -Heinrich Klotz and the Third Way in architecture. "Revision der Moderne": Postmodernism is coming to Germany

16.30 pausa | break

  • NUOVE NARRAZIONI | NEW NARRATIVES - presiede | chair Brigitte Sölch

17.00 

  • Dominique Rouillard (École d'Architecture Paris-Malaquais) - Dystopia, a positive narrative for architecture

17.45 

  • Marco Biraghi (Politecnico di Milano) - La realtà come distopia. Visioni urbane contemporanee

venerdì | friday 17

  • PARADIGMI | PARADIGMS - presiede | chair Stephanie Hanke

9.30 

  • Marie Theres Stauffer (Université de Genève) - Learning from No-Stop City. Reconsidering Archizoom's urban utopia

10.15 

  • Maddalena Scimemi (Università di San Marino) - Architecture on paper: Cedric Price and the Scientific Aesthetic of Diagrams

11.00 pausa | break

  • STRUMENTI AMBIGUI | AMBIGUOUS TOOLS  -presiede | chair Michael Tymkiw

11.30 

  • Simon Sadler (University of California) - The Hammer and the Garrote: a parable of "tool globalism"

12.15 

  • Felicity Scott (Columbia University) - False Fronts